Teatro

Enzo Moscato: 'Il teatro è una ferita'

Enzo Moscato: 'Il teatro è una ferita'

Conversazione con Enzo Moscato al Teatro Ca' Foscari di Venezia per presentare Compleanno, omaggio affettuoso ad Annibale Ruccello.

Enzo Moscato approda al Teatro Ca’ Foscari di Venezia con Compleanno, scritto nel 1986 a pochi mesi dalla scomparsa di Annibale Ruccello, altro grande interprete della drammaturgia napoletana post eduardiana, e a lui dedicato. E’ un ritorno nella città lagunare dopo nove anni. L’ultima volta per la Biennale Teatro di Maurizio Scaparro. Un’edizione, quella del 2007, tutta dedicata alle riscritture goldoniane nella quale il drammaturgo napoletano presentò Le doglianze degli attori a maschera, un omaggio a Goldoni, ma anche e soprattutto il riconoscimento di due fortissime identità culturali, quali appunto sanno essere città come Napoli e Venezia.Dunque, è da qui che dobbiamo cominciare la nostra conversazione con Enzo Moscato.

Che effetto ti fa tornare a Venezia dopo tanti anni?
Venezia è una città importante, una città che amo proprio per la sua simmetricità con Napoli. Sono due capitali culturali, due poli, non solo Nord e Sud, ma anche e soprattutto Oriente e Occidente. Sono due mondi diversi, ma le differenze sono una ricchezza, ci sono e ci devono essere, altrimenti non ci sarebbe nessuna dialettica. Le loro bellezze guardano in direzioni diverse, Venezia con la maestosità dei suoi palazzi e Napoli con le sue spaziosità panoramiche. E poi custodiscono entrambe due lingue profondamente affascinanti.

Ecco, la lingua per l’appunto. Strehler diceva che veneziano e napoletano sono le uniche due lingue teatrali italiane. Tu che hai dedicato sempre ampio spazio alla ricerca linguistica nel tuo percorso teatrale cosa ne pensi?
La lingua è una componente fondamentale della dimensione teatrale, ma non come lingua fine a se stessa, piuttosto come sonorità, e d’altronde nel mio omaggio a Goldoni “Le doglianze degli attori a maschera” era questo l’esperimento tentato. Mettere una lingua nobilissima come il veneziano sulla bocca di personaggi napoletani, una commistione che mi ha sempre affascinato. Per esempio, ancora oggi mi colpisce sentire parlare napoletano con accento forestiero, mi sembra che in questo modo la mia lingua ne venga nobilitata. E così la ricerca della commistione linguistica come sonorità resta per me essenziale. E’ anche il mio profondo legame con la musica che in qualche modo ne viene fuori, pensare alla lingua parlata in termini di sonorità, di partitura musicale è per me un esercizio irrinunciabile. In qualche modo, ne sono convinto, i contenuti vengono dopo il suono.

“Compleanno” nasce nel 1986 sull’onda emotiva per la scomparsa dell’amico Annibale Ruccello. Trent’anni di questo spettacolo visto in tutta Italia e in gran parte d’Europa. In che modo si è andato modificando nel tempo?
Nessuna modifica, nessun cambiamento. Lo spettacolo è sempre lo stesso, non una parola è scomparsa o è stata sostituita in questi trent’anni. Quelle che sono cambiate sono invece le emozioni, oggi io recito Compleanno con emozioni diverse rispetto a quando l’ho messo in scena per la prima volta. Non è cambiato niente, perché questo spettacolo è innanzitutto uno spettacolo che rispetta del teatro l’essenza più profonda, quella cioè di recitare l’assenza. E’ la sedia vuota in scena, è la mancanza di una vera e propria trama, è questo suo essere un Lied, un canto di morte, dove si liberano energia e pulsioni a renderlo uno spettacolo dell’assenza. L’assenza improvvisa e dolorosissima di Annibale, allora, le assenza che pesano sulla nostra contemporaneità, oggi.

A proposito di Annibale Ruccello, il pubblico del Teatro Ca’ Foscari è in prevalenza un pubblico di studenti universitari…
(interrompendomi) Ed è una cosa bellissima, un teatro pieno di giovani apre il cuore…

Ma questi giovani non sanno nulla di Ruccello, magari non riusciranno neanche a capire il tuo napoletano…
Questo spettacolo, lo dicevo prima, è come un canto doloroso, dove il senso profondo, la comprensione se vuoi, sono dati proprio dall’energia di una partitura. In questo senso Compleanno è uno spettacolo che potrei definire dadaista, è come una cantata dove la forma diventa essenziale. E’ un po’, passami il termine, come un Kabuki napoletano. Insomma, quando ci capita di vedere il teatro giapponese, pur non comprendendo le singole parole, apprezziamo la forma, la sonorità, i suoni. E così è per Compleanno. Ho sentito il pubblico ridere a Berlino, perché una volta percepita l’irriverenza del testo, al di là delle singole espressioni, puoi ritrovarti in una comprensione dove la differenza linguistica non gioca nessun ruolo. Andare a teatro armato di un libretto con traduzione è assolutamente insensato.

In conclusione, che cos’è il teatro per Enzo Moscato?
Il teatro è innanzitutto una ferita, una ferita che bisogna essere disposti a sentire. E per sentirla bisogna studiare, lavorare come artigiani umili e non smettere mai di farlo. Ecco, tutto qui. Semplice no?